venerdì 20 aprile 2012

Il curioso caso del movimento fascista a Cuba, tra falangismo, peronismo e castrismo...


di Davide Pirillo

La Falange Cubana fu una organizzazione fascista, fondata da Antonio Avendaño e Alfonso Serrano Vilariño nel giugno del 1936, s'ispirava al modello della Falange Spagnola, ebbe vita fino al 1940, quando venne sciolta dal regime militarista e filo-americano di Fulgencio Batista, che rifiutava sdegnatamente l'ideologia fascista, considerata “rivoluzionaria” e “peones”. L'attività della Falange Cubana e la ricerca di una terza via nazionale, favorita dall'aiuto della Spagna, aveva probabilmente impaurito Batista, portandolo a promulgare la legge che vietava i movimenti politici che facevano specifico riferimento a gruppi stranieri, seppur la Falange Cubana era esplicitamente nazionalista e patriottica. Nel 1941 Batista dichiarò formalmente guerra ad Italia, Germania e Giappone, ruppe i rapporti diplomatici col Governo di Vichy e concesse ulteriori basi alla Marina degli Stati Uniti sull'isola, ufficialmente in funzione di monitoraggio antisommergibili italo-tedeschi.
Non contento Batista farneticava di un eventuale invasione della Spagna franchista da parte delle “forze latino-americane”.

Per via del regime castrista che imperversa dagli anni '50 è difficile, oggi, reperire informazioni dettagliate su questo poco conosciuto movimento, che arrivò ad avere oltre cinquemila aderenti nel 1938.
Curiose sono alcune teorie in lingua spagnola che circolano in internet, secondo la quale sarebbe esistito un'infiltrazione di numerosi falangisti cubani nel “Movimento del 26 Luglio” (M 26-7), il movimento popolare che iniziò la “rivoluzione cubana” con l'assalto alla Caserma Moncada, avvenuto appunto il 26 luglio del 1953, inizio dell'ascesa di Fidel Castro.
Di certo il Movimento del 26 Luglio ed il suo fondatore, lo stesso Fidel Castro, all'inizio non erano marxisti, si ispiravano al pensiero libertario ed antimperialista dell'eroe nazionale e poeta José Martí e nonché al socialismo rivoluzionario, al M 26-7 aderirono molti militanti del Movimiento Nacionalista Revolucionario e tanti giovani di diverse idee.
Solo successivamente venne improntata la Rivoluzione cubana su dinamiche marxiste, non è del tutto sbagliato pensare che fu una svolta voluta dallo stratega Castro per le opportunità politiche che rappresentava l'Unione Sovietica, così si giustificherebbe l'aiuto di Ernesto Che Guevara e di Fidel Castro nel fare espatriare i falangisti cubani senza ritorsioni, sempre se sono vere dette teorie che sono pur sempre dietrologia.
Teorie comunque plausibili, visto alcune sfumature del castrismo, basta ripercorrere le vicende politiche dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, la conversione cristiana da parte del lider maximo, il forte nazionalismo cubano ed il “marxismo economico non troppo ortodosso” che lo rende (lasciatemelo dire) un comunismo atipico, da non sottovalutare le convergenze ideologiche tra castrismo e le appendici rivoluzionarie del peronismo, Peron stesso ebbe a dire: «La Revolucion cubana tiene nuestro mismo signo».
Insomma una specie di mutuo-soccorso americano-latino (in funzione nazionalista ed anti-imperialista), lo stesso che Castro sembra non sdegnare oggi, nei rapporti personali con Hugo Chávez, di cui sembra tollerare se non addirittura simpatizzare gli slanci “fascio-peronisti”, come quando ha accostato Lenin a Mussolini o quando s'è dichiarato peronista pubblicamente al cospetto della presidentessa argentina Cristina F. Kirchner, esordendo: «Yo soy peronista de verdad».
Qualcuno obbietterà che comunque è difficile trovare una qualsiasi matrice o continuità ideologica falangista nel castrismo, per via delle posizioni meramente militariste e cattolico-clericali del franchismo (In realtà più simile al “caudillismo” alla Batista), e che anche il falangismo originario di José Antonio Primo de Rivera (A cui si ispirava la Falange Cubana) era molto distante dal castrismo, più accostabile per certe sfumature al fascismo italiano delle origini e della RSI.
Sicuramente emblematico è l'accettazione da parte di Castro del concetto di Cristianesimo nell'eccezione socialista e popolare già patrimonio culturale del socialismo nazionale americano-latino, che allontana sempre di più Cuba dall'ateismo marxista. Chàvez stesso riferì in una dichiarazione video 28 giugno 2007 (dove chiariva che il suo socialismo era nazionale, cristiano e non marxista), riferisce di una confidenza fattagli dal presidente del Nicaragua Daniel Ortega a cui Castro stesso gli ha consigliato durante la prima ricorrenza della Rivoluzione del Giugno del 1980, di ricostruire una cattedrale distrutta, consiglio non accolto da Ortega allora ateo, oggi anche lui convertito al “cristianesimo popolare”.
Quello che è certo che in America Latina come nel mondo arabo è difficile etichettare per schemi preconcetti, come succede in Europa, i confini sono sfumati e danno vita a fenomeni particolari, affascinanti ed irripetibili.

lunedì 20 febbraio 2012

Su Bobby Sands...

Pochi personaggi sono riusciti nell’intento di unire culture differenti come Bobby Sands, il militante dell’I.R.A. morto nel 1981 dopo sessantasei giorni di sciopero della fame nel carcere di Long Kesh.
Questo, non tanto per l’eroico sacrificio di chi si spende totalmente per un’idea, che in tal precipuo caso coincide con l’amore per la patria, intesa nella sua accezione pura di suolo e sangue, ma per il significato intrinseco della lotta antimperialista del movimento extraparlamentare irlandese.
A mio sommesso parere, tale condivisione va rigettata con forza. Trattasi solo di uno dei tanti, troppi casi, in cui una certa sinistra cerca di appropriarsi di lotte che non gli appartengono, attribuendo ad esse significati e significanti assolutamente distorti.
Lungi da me voler polemizzare con gente che non merita spreco d’aria, ma la premessa era doverosa e va motivata contestualmente al racconto del personaggio Sands. Innanzitutto non si può prescindere dalla caratteristica genetica della lotta per l’indipendenza irlandese: ossia la componente cattolica. Tutta la questione nord irlandese verte sulla diatriba storica tra cattolici (repubblicani e nazionalisti) e protestanti (monarchici e lealisti) e, aggiungo io, traditori del loro stesso DNA, poiché il popolo irlandese è sempre stato fortemente cattolico prima dell’eresia orangista.
Ebbene, i novelli bolscevichi, quelli che distruggono le statue della Madonna e che tanto amano sfoggiare magliette recanti la dicitura “grazie a Dio sono ateo” dimenticano, bontà loro, questo non trascurabile particolare.
Altra caratteristica, già menzionata, ma su cui giova ripetersi per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, è l’acceso nazionalismo dell’I.R.A., una connotazione questa che non dovrebbe trovar d’accordo chi ha sempre classificato il nazionalismo come sinonimo di razzismo, conservatorismo, reazione.
Ma torniamo al sacrificio di Bobby Sands perché le reazioni che lo sciopero della fame, la sua morte e quella dei suoi compagni (in tanti seguirono il suo esempio) suscitarono, furono contrastanti. Per il governo inglese, per gli occupanti, cioè, quella morte fu una vittoria e per tale venne pubblicizzata dall’infame primo ministro inglese Margaret Thatcher. Per l’I.R.A, gli oppressi, cioè, quella morte (ma sarebbe giusto dire quelle morti poiché furono in dieci a digiunare) fu un esempio eroico di coraggio ad oltranza e per la maggior parte della popolazione irlandese quello sciopero della fame fu una tragedia che lacerò i cuori e sconvolse le coscienze. Perchè una cosa va evidenziata con forza: pur non condividendo, in alcuni sporadici casi, la strategia dell’Irish Republican Army, il popolo irlandese comunque ne condivideva gli obiettivi ed era dalla parte dei suoi ragazzi, dei suoi figli, fratelli e padri. A questo proposito è d’uopo consigliare, per chi non l’avesse ancora visto, la visione di un toccante film sull’argomento: “Una scelta d’amore”, un film che prende le distanze dalla facile retorica di tutte le pellicole che difendono la democrazia inglese e che scava nel profondo delle motivazioni di questo grande popolo in lotta.
Sembrerà strano, ma i 66 giorni di digiuno costituirono solo l’ultima goccia del calvario di questo grande uomo, un calvario che solo chi ha letto qualcosa sul famigerato blocco H delle carceri britanniche può solo osare immaginare. Basti ricordare che i ragazzi irlandesi, non indossando per protesta l’uniforme della prigione poiché volevano che venisse loro riconosciuta la qualifica di detenuti politici, con pedissequa possibilità di indossare i propri abiti (ovviamente negata dalla lady di ferro) stavano nudi con due sole asciugamani a coprire il collo e le zone intime.
Il tutto, in una cella dalla cui finestra entravano gelidi spifferi di freddo e nella quale i riscaldamenti venivano spenti l’inverno ed accesi l’estate.
Inoltre, i detenuti irlandesi dovevano espletare le proprie funzioni fisiologiche all’interno della cella, spalmando gli escrementi sui muri. Queste torture, perché in altro modo non è possibile chiamarle, sono state messe in atto da un governo che per la società perbenista e borghese ha sempre costituito un fulgido esempio di democrazia e civiltà.
Un grande uomo del secolo scorso ebbe a dire: “Dio stramaledica gli inglesi!”, non ci è dato sapere se Bobby Sands ebbe mai ad udire questa frase ma una cosa è certa: il suo sacrificio costituisce un motivo di orgoglio per tutto il popolo irlandese e per quella lotta in nome di Dio e dell’Irlanda libera che prima o poi sarà vinta.

Avv. Francesco Russo
Presidente ELMO ACHEO

lunedì 13 febbraio 2012

martedì 1 marzo 2011

Calabria: LA VANDEA ITALIANA (da Ruffo alle insorgenze anti-francesi)

[...] Arrivò il tempo delle idee massoniche in tutto il regno, ingrati verso i Borbone ed il loro governo, molti intellettuali predicavano queste nuove idee; in Calabria particolarmente operarono: Francesco Valitutti (Paola), Giovanni Labonia (Rossano), Giuseppe Logoteta (Reggio Calabria), l'abate Jerocades a (Pargherlia) e altri intellettuali calabresi che aderirono alle idee della massoneria.
A Parigi arrivava al potere Napoleone, esportando la rivoluzione in tutto il vecchio continente, all'arrivo delle truppe francesi, guidate dal generale Championnet, Ferdinando IV fu costretto a trovare rifugio in Sicilia, a Napoli venne proclamata la Repubblica Partenopea (Castel S. Elmo, 22 gennaio 1799).
Le truppe francesi entrarono a Napoli il 23 gennaio, ma avranno vita breve grazie all'eroismo di un cardinale calabrese.
Il cardinale Fabrizio Ruffo (San Lucido, 16 settembre 1744 – Napoli, 13 dicembre 1827 – Illustrazione 4), il 25 gennaio 1799 (giorno dell'insediamento di Ferdinando IV alla corte di Palermo), venne nominato vicario generale del regno.
Con sei persone, il cardinale sbarcò sulle coste calabresi (8 febbraio 1799), nei territori feudo della sua famiglia, sventolando una bandiera bianca, che diventerà il glorioso vessillo dell'Armata Sanfedista.
Il cardinale, incaricato dalla corte di Palermo, predicò l'insurrezione alle popolazioni calabresi, ancora poco contaminate dagli ideali massonici e rivoluzionari francesi: le parrocchie fecero suonare le campane per adunare la gente, la sollevazione diventò popolare, incontenibile.
Partì dall'attuale provincia di Reggio, organizzando meticolosamente la sua macchina bellica, marciavano prepotentemente, ingrossavano le fila con nuovi arruolamenti, espropriò beni come quelli del fratello stesso a Bagnara, teneva infervoranti discorsi, piegava mano a mano i paesi a fede repubblicana, intanto riceveva piccoli aiuti spediti da Messina: come cannoni ed una macchina per stampare proclami; ormai era forte di 17.000 uomini, che divise in due colonne bene armate e bene organizzate.
Arrivò a Crotone dove trovò e sbaragliò l'ultima grande resistenza repubblicana, sostenuta da un contingente di soldati francesi, fu un massacro, infatti il cardinale Ruffo, per evitare ulteriore spargimento di sangue, mandò precedentemente tre suoi parlamentari a trattare con i repubblicani crotonesi che per tutta risposta fecero trucidare i tre parlamentari non preoccupandosi di suscitare una carneficina ai danni della popolazione crotonese.
Il cardinale a malincuore inviò una delle due colonne sulla città, non riuscendo ad impedire i saccheggi e le devastazioni da parte dei suoi uomini, che erano pieni di zelo antifrancese e religioso, specie i briganti del famigerato Panzanera.
I fatti sanguinosi di Crotone costarono al cardinale molte critiche che fecero vacillare il suo esercito, ma, poichè il consenso era ancora forte, riuscì a radunare di nuovo 7.000 uomini marciando alla volta di Napoli: stavano per aggiungersi ad un migliaio di galeotti, fatti sbarcare in Calabria dagli inglesi (in funzione anti francese), questi furono assegnati al comando di un altro brigante, Panedigrano (Nicola Gualtieri), che utilizzò i galeotti inglesi con ferrea disciplina.
Durante il cammino da Crotone a Cassano, l'Armata gonfiò le sue fila arrivando ad oltre 16.000 uomini, composti da ex carcerati, truppe baronali, soldati irregolari, cavalieri, religiosi, contadini ed artiglieri.
L'Armata della Santa Fede raggiunse Napoli il 13 giugno, liberando la Capitale dai francesi nell'ultima battaglia al Ponte della Maddalena; i repubblicani superstiti della furia sanfedista, tentando un'ultima e disperata resistenza, si arroccarono nel Forte di Vigliena, facendosi in fine esplodere per evitare la cattura.
Si chiuse così la breve parentesi della Repubblica Partenopea.
Il cardinale Ruffo, sconfitti i francesi, tentò comunque di salvare i repubblicani napoletani dalle prevedibili repressioni, perché non voleva ulteriore spargimento di sangue, e contro il volere stesso dei Borbone, che da Palermo reclamavano la linea dura, sottoscrivendo un accordo con i comandanti inglesi, russi e polacchi (degli eserciti regolari che avevano partecipato all'assedio); tentò di fare fuggire i repubblicani con le truppe e le navi francesi in ritirata.
Ma, sotto pressione dei Borbone, il trattato non venne accettato dall'ammiraglio inglese Nelson, gli sconfitti andarono incontro al loro destino ed i Borbone tornarono al trono.
Nel 1801 le truppe borboniche, tentarono di raggiungere la Repubblica Cisalpina, ma furono sconfitte a Siena da Gioacchino Murat; seguì l'armistizio di Foligno (18 febbraio 1801) e subito dopo la pace di Firenze, che prevedeva tra l'altro l'amnistia per i repubblicani.
Il Regno rimarrà governato dalla dinastia borbonica fino al 1806, quando le truppe napoleoniche invaderanno Napoli, aprendo così una nuova parentesi francese, di circa dieci anni: il cosiddetto periodo "murattiano".
Alla momentanea ricaduta borbonica, venne nominato re Giuseppe Bonaparte che, dopo la nomina a re di Spagna nel 1808, lasciò il trono al generale francese Gioacchino Murat.
In tutto il periodo, fino alla ricaduta dei francesi, la Calabria si confermò una terra ostile e ribelle, conquistò in tutta Europa notorietà perché ostinatamente antifrancese: tanto da essere paragonata e considerata alla stregua della mitica Vandea (Regione rivoltosa della Francia, che non accettò mai i valori della rivoluzione francese tanto da essere quasi sterminata).
Con forza e volontà inaudita, nell'ultima decade di marzo del 1807 scoppiò la rivolta popolare contro i francesi, partita da Soveria Mannelli, era il 22 marzo, quando venne infastidita una ragazza locale da parte di un soldato francese che comandava il drappello a presidio di Soveria, i compaesani della bella giovane accorsero alle sue grida massacrando il drappello composto da poche unità, l'insurrezione così dilagò in un attimo in tutti i comuni vicini.
I francesi per tutta risposta bruciarono villaggi ed impiccarono i rivoltosi; la repressione non servì a nulla, infatti, il 4 aprile a Maida i Francesi furono sconfitti dai rivoltosi, sostenuti da alcune truppe inglesi.
I francesi abituati a vincere in tutta Europa (con una situazione lontanamente simile alla Calabria solo nella Gallizia), reagirono in maniera molto dura per via degli umilianti colpi ricevuti dal così tenace popolo calabrese.
Il 31 luglio venne proclamato lo stato di guerra nella Calabria, fu avviato un provvedimento formale, a legittimazione delle pesanti e feroci azioni repressive che i Francesi inflissero alle popolazioni della Calabria; si tratta di un provvedimento di legittimazione che ha pochi esempi in tutta la storia.
Nonostante la reazione molto dura la Calabria rimase in guerra fino alla caduta dei francesi.
Il questi anni di governo francese, ben poco fu fatto per la regione, si cercò di abolire la feudalità per decreto (come se bastasse una formalità scritta), molto probabilmente per colpire i nobili calabresi più che per aiutare il popolo.
Si mise mano alla strada principale calabrese che fu costruita dai Borbone (attuale statale 19 – ex strada delle calabrie), fu spostata la capitale della Calabria da Catanzaro a Vibo Valentia (allora Monteleone di Calabria), fatto che portò tuttavia il fiorire di molti mestieri e ripresa economica nella nuova capitale designata.
Ma la guerriglia della “Vandea italiana” continuava incurante di tali ed iniqui provvedimenti.
Arrivano i “cento giorni” e la sconfitta di Napoleone nella battaglia di Waterloo; è il tempo della restaurazione della monarchia, nel meridione d'Italia è quella di Ferdinando IV di Borbone con la soppressione del Regno di Napoli e Regno di Sicilia che erano divisi da due costituzioni diverse: tutto questo voluto dal Congresso di Vienna che durò dall' 1 novembre 1814 all'8 giugno 1815 (curiosità: il congresso di Vienna abolì la tratta degli schiavi).
Gioacchino Murat cercò di ritornare da Rodi Garganico (dove s'era rifugiato) a Napoli con un pugno di fedelissimi per sollevarne la popolazione, ma il destino crudele volle che la sua nave dirottasse, a causa di una tempesta, in quella terra ostile che era la Calabria: fu arrestato e fatto fucilare nel Castello di Pizzo Calabro nell'ottobre del 1815 da un tribunale militare (oggi il castello porta il suo nome).
I titoli: Re Ferdinando IV (per il Regno di Napoli) e re Ferdinando III (per il Regno di Sicilia) diventarono un unico titolo re Ferdinando I, nasceva sotto la sua guida illuminata il Regno delle due Sicilie: era l'8 dicembre del 1816. [...]

(Dalla mia tesi di laurea - Beni culturali intangibili di Calabria - Davide Pirillo)


Cardinale Ruffo (raffigurazione 4)

venerdì 14 gennaio 2011

IL MITO DELLA RIVOLTA! (Reggio Calabria 1970)


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.Filmato sulla rivolta di Reggio, ricavato da vari spezzoni di documentari.
A cura dell'Ass. Elmo Acheo ( www.elmoacheo.blogspot.com )
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Quando l'italietta "democratica" mandò i carri armati contro degli italiani...
I reggini combatterono nelle strade contro tutto e tutti, guidati dal mitico CICCIO FRANCO (MSI)...
Una rivolta scoppiata per questioni locali (Istituzione dell'Ente Regione e capolugo andato a Catanzaro), innegabile, ma oltre al localismo, aveva in sè i germi di ribellione e di malessere comune a tutto il Sud, dove Reggio si ergeva a simbolo di riscatto, dove un popolo intero ed un capo alzarano la testa contro il sistema... La rivolta di Reggio era la rivolta del Sud!
Sicuramente tragica, con le sue vittime, i suoi feriti, centinaia d'arresti, mesi di guerriglia incensante, che ha fatto tremare la partitocrazia italiana ed il sitema affaristico-elettorale, che ancora oggi è vivo e vegeto.
"BOIA CHI MOLLA! BOIA CHI MOLLA!" Gridavano i reggini, ed intanto le molotov fischiavono sul capo dei cellerini, otto mesi di fuoco, tritolo e bastonate di una violenza inaudita, di un fervore che ha esempi in Calabria, solo nelle rivolte anti-francesi del periodo murattiano, quando la nostra regione ebbe fama internazionale, fino ad essere considerata alla stregua della mitica Vandea!
Un mito, oggi dimenticato, che deve essere rispolverato, decontestualizzato e messo al centro della mistica militante dei giovani camerati calabresi e di tutto il meridione.
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ANCORA E SEMPRE RIVOLTA!
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L'ELMO ACHEO

mercoledì 27 gennaio 2010